Potremmo definirla tecnologia femminile, quella che aiuta ad aumentare la parità di genere consentendo a uomini e donne di dividersi equamente fra figli e lavoro. Ma esiste davvero?

 

Parità di genere è stata troppo allungo un’espressione vuota, priva di una concreta realizzazione nella realtà. Il problema di fondo è un gap tra uomini e donne che vede sempre queste ultime in difficoltà nel mondo del lavoro, impossibilitate a dividersi in un modo giusto e sereno tra casa e ufficio. In una recente riunione delle Nazioni Unite a New York ci si è chiesto se esiste davvero una “tecnologia femminile” che possa colmare questo gap di genere.

 

È possibile sfruttare le nuove tecnologie per promuovere il giusto equilibrio tra vita privata e lavoro, favorendo la parità di genere? Gli esperti, proprio a New York, sono giunti alla conclusione che nelle economie avanzate la maternità retribuita, l’istruzione infantile e i servizi a sostegno della famiglia, da soli, non sono stati sufficienti a centrare l’obiettivo, mentre una “tecnologia femminile”, ovvero una tecnologia orientata proprio alla parità di genere, invece, potrebbe farcela. 

 

Parità di genere non significa flessibilità sul lavoro solo per le donne

 

Una delle pratiche più diffuse per aiutare le donne nel mondo del lavoro è stata una combinazione di flessibilità, autonomia e collaborazione destinata a impiegate e manager donne che non richiede necessariamente una presenza costante in un ufficio. Secondo lʼAssociation for Psychological Science, di flessibilità sul luogo di lavoro per raggiungere la parità di genere se ne parla almeno dagli anni Settanta: si tratta, quindi, di un concetto datato e che non viene apprezzato da moltissime aziende. Il telelavoro viene considerato una “tecnologia femminile” capace di consentire alle donne di essere produttive anche a distanza, restando a casa quando ce n’è bisogno, ma a che prezzo?

 

Il telelavoro migliora il rapporto lavoro/vita privata (uno degli undici fattori che insieme determinano il Better Life Index dellʼOcse), con effetti positivi per la società, eppure rischia di non aiutare le donne alla parità di genere in molti uffici, bensì a ghettizzarle. Secondo Erika Bernacchi, dellʼIstituto degli Innocenti, la parità di genere sul luogo di lavoro si può realizzare solo «dando anche agli uomini l’opportunità di lavorare da casa». Questo «ridurrebbe la discriminazione di genere sollevando le donne dalla responsabilità di essere le uniche a doversi occupare di casa e figli».

 

Insomma, basta intendere il telelavoro come una “tecnologia femminile” che consente alla donne di stare a casa e lavorare mentre nell’altra stanza ci sono i bambini con la febbre o la varicella! Il telelavoro andrebbe inteso come uno strumento in grado di equilibrare la vita della persona e della famiglia. 

 

Telelavoro non significa non staccare mai

 

Bella la flessibilità sul lavoro che consente di essere produttivi anche da casa, via computer, tablet o smartphone, verso una vera parità di genere in ufficio. Ma attenzione a non cadere nel tranello! Il rischio di blurring of boundaries è altissimo, per cui, lavorando dalle mura domestiche si può finire col non staccare mai, anche complice il senso di colpa del non essere fisicamente sul posto di lavoro. La “tecnologia femminile” che apre al telelavoro, quindi, può essere un’arma a doppio taglio: fondamentale è rivendicare il diritto a disconnettersi.